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Vicino a
Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre
attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora
oggi chiamano –
l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli.
Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri
di pietra, lungo
(riga 5) cento metri, largo altrettanto.
Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole
casermette con
feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano
stare al riparo
dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle
loro vittime, i
poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che
si ergevano entro
(riga 10) il quadrato.
Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa
più.
Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto,
incoscienti
dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque
a mia madre
che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il
mio cibo preferito
(riga 15) quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi
aspettasse a pranzo, sarei
tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché
bisognerebbe
sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma
io andavo a
esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle
foreste della
Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e
dei miei
(riga 20) pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo
o il giaguaro per liberare una
dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti
e imploranti…
Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria.
Strinsi
nella mano il coltellino. Entrai.
Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame
folto. Sotto il
(riga 25) piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati.
D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole
grida
soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di
uscire da una buca
e non vi riuscisse.
Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio:
l’animale
(riga 30) doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e
stava zitto per non farsi
scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò.
C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un
uomo, stretta,
verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo
che mi fui abituato
all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto
peloso, giallo di
colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi.
Mi guardava, ma
(riga 35) senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io
lo guardavo: a lungo, a
lungo.
Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole
grida, come un
cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da
temere e che lo
avrebbero salvato.
(riga 40) Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise
a saltellarmi intorno,
felice.
– Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto.
Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora
più vicini, ora
brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere
dalle mie
(riga 45) mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo.
Finché… dei rami spezzati
dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più
di due metri, uno
splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre.
Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo.
Invano il
piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come
se lui non
(riga 50) esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo
sconosciuto che aveva
osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato
le simpatie
di suo figlio.
Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di
farmela amica.
S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente.
(riga 55) Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte,
poi la schiena. Con
tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile.
Soltanto gli
occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con
amicizia.
Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle
mie mani la
(riga 60) fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. |
Tratto
e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più
bella del mondo, Vita e pensiero,Milano, 1984 |
In base
a quanto hai letto nel testo , il termine "Useliera" indica
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