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Mio padre
s’alzava sempre alle quattro del mattino. La sua prima preoccupazione,
al risveglio, era andare a guardare se il “mezzorado” era venuto
bene. Il mezzorado
era latte acido, che lui aveva imparato a fare, in Sardegna, da
certi pastori. Era semplicemente
yoghurt. Lo yoghurt, in quegli anni non era ancora di moda: e
non si
(riga 5) trovava in vendita, come adesso, nelle latterie o nei
bar. Mio padre era, nel prendere
lo yoghurt come in molte altre cose, un pioniere. A quel tempo
non erano ancora di
moda gli sport invernali; e mio padre era forse, a Torino, l’unico
a praticarli. Partiva,
non appena cadeva un po’ di neve, per Clavières, la sera del sabato,
con gli sci sulle
spalle. Allora non esistevano ancora né Sestrières, né gli alberghi
di Cervinia. Mio
(riga 10) padre dormiva, di solito, in un rifugio sopra Clavières,
chiamato “Capanna Mautino”.
Si tirava dietro a volte i miei fratelli, o certi suoi assistenti,
che avevano come lui la
passione della montagna. Gli sci, lui li chiamava “gli ski”. Aveva
imparato ad andare in
ski da giovane, in un suo soggiorno in Norvegia. Tornando la domenica
sera, diceva
sempre che però c’era una brutta neve. La neve, per lui, era sempre
o troppo acquosa,
(riga 15) o troppo secca. Come il mezzorado, che non era mai come
doveva essere: e gli
sembrava sempre o troppo acquoso, o troppo denso.
«Lidia! il mezzorado non è “venuto”!» tuonava per il corridoio.
Il mezzorado era in
cucina, dentro una zuppiera, coperto da un piatto e ravvolto in
un vecchio scialle
color salmone, che apparteneva un tempo a mia madre.
(riga 20) A volte non era “venuto” affatto, e si doveva buttar
via: non era che una acquerugiola
verde, come qualche blocco solido di un bianco marmoreo. Il mezzorado
era
delicatissimo, e bastava niente a far sì che non riuscisse: bastava
che lo scialle che lo
ravviluppava fosse un po’ scostato, e lasciasse filtrare un po’
d’aria.
«Anche oggi non è “venuto”! Tutta colpa della tua Natalina!» tuonava
mio padre dal
(riga 25) corridoio a mia madre, che era ancora mezzo addormentata,
e gli rispondeva dal letto
con parole sconnesse. Quando andavamo in villeggiatura, dovevamo
ricordarci di
portar via “la madre del mezzorado” che era una tazzina di mezzorado
ben incartata
e legata con uno spago. «Dov’è la madre? avete preso la madre?»
chiedeva mio padre
in treno, rovistando nel sacco da montagna. «Non c’è qui! qui
non c’è» gridava;
(riga 30) e a volte la madre era stata davvero dimenticata, e
bisognava ricrearla dal nulla, col
lievito di birra.
Mio padre faceva, al mattino, una doccia fredda. Lanciava, sotto
la sferza dell’acqua,
un urlo, come un lungo ruggito; poi si vestiva e trangugiava gran
tazze di quel mezzorado
gelido, in cui versava molti cucchiai di zucchero. Usciva di casa
che le strade
(riga 35) erano ancora buie, e quasi deserte; usciva nella nebbia,
nel freddo di quelle albe di
Torino, con in testa un basco largo, che gli formava quasi una
visiera sulla fronte, con
un impermeabile lungo e largo, pieno di tasche e di bottoni di
cuoio; con le mani
dietro la schiena, la pipa, quel suo passo storto, una spalla
più alta dell’altra; per le
strade non c’era ancora quasi nessuno, ma le poche persone che
c’erano lui riusciva
(riga 40) a urtarle nel passare, camminando ingrugnato, a testa
bassa.
Non c’era a quell’ora, nel suo laboratorio, nessuno; forse soltanto
Conti, suo inserviente,
un ometto basso, tranquillo, sommesso, con il camice grigio, che
voleva
molto bene a mio padre e al quale lui voleva molto bene; e che
veniva a volte a
casa nostra, quando c’era bisogno di aggiustare un armadio, di
cambiare una valvola
(riga 45) della luce, o di legare i bauli. Conti, a forza di stare
nel laboratorio, aveva imparato
l’anatomia; e quando c’erano gli esami, suggeriva, e mio padre
s’arrabbiava; ma poi
a casa raccontava compiaciuto a mia madre che Conti sapeva l’anatomia
meglio
degli studenti. In laboratorio, mio padre s’infilava un camice
grigio, uguale a quello
di Conti; e andava urlando nei corridoi come usava urlare nel
corridoio di casa.
(riga 50) Vivevamo sempre, in casa, nell’incubo delle sfuriate
di mio padre, che esplodevano
improvvise, sovente per motivi minimi, per un paio di scarpe che
non si trovava, per
un libro fuori posto, per una lampadina fulminata, per un lieve
ritardo nel pranzo, o
per una pietanza troppo cotta. Vivevamo tuttavia anche nell’incubo
delle litigate tra
i miei fratelli Alberto e Mario, che anche quelle esplodevano
improvvise, si sentiva a
(riga 55) un tratto nella loro stanza un rumore di sedie che si
rovesciavano, e di muri percossi,
poi urla laceranti e selvagge. Alberto e Mario erano due ragazzi
ormai grandi, fortissimi,
che quando si prendevano a pugni si facevano del male, ne uscivano
coi nasi
sanguinanti, le labbra gonfie, i vestiti strappati. «Si amazzano!»
gridava mia madre,
trascurando l’emme doppia nello spavento. «Beppino vieni, si amazzano!»
gridava,
(riga 60) chiamando mio padre.
L’intervento di mio padre era, come ogni sua azione, violento.
Si buttava in mezzo a
quei due avvinghiati a picchiarsi, e li copriva di schiaffi.
(riga 63) Io ero piccola; e ricordo con terrore quei tre uomini
che lottavano selvaggiamente.
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..N.
Ginzburg, Lessico familiare, Einaudi
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