A1
Stamattina
sono uscito con lo scopo preciso di guardare la bocca e possibilmente
i
denti della gente pressappoco della mia età: chi li aveva più
fitti e chi più radi, forse
non erano tutte chiostre smaglianti da reclame di dentifricio,
ma comunque non ho
scoperto nulla di sconvolgente.
(riga 5) Eppure la mia generazione è cresciuta senza "apparecchio".
L’apparecchio è una
prerogativa dei nostri figli, chi ha un figlio che non deve mettersi
in bocca un aggeggio
(quanto meno di notte) mi scriva e m’interesserò del suo caso.
Tutto comincia quel giorno in cui il bambino torna da scuola con
un avviso che
invita i genitori ad accompagnarlo all’istituto dei denti. Si
crea subito uno stato d’allarme,
(riga 10) il ragazzo non ha carie, spacca le noci con i denti,
di che cosa può trattarsi?
Si va all’ambulatorio e dopo lunga attesa tra file di bambini
che hanno avuto lo
stesso invito, si è ricevuti dal professore, famoso mago dell’ortognatodonzia
(vocabolo
conturbante che ci ha fatto sfogliare il dizionario). Circondato
da uno stuolo di
assistenti il maestro inizia la visita, apri, chiudi, e si rivolge
ai discepoli in gergo scientifico.
(riga 15) Quando la madre è sul punto di svenire, convinta che
quel linguaggio grave e
indecifrabile riguardi un caso senza precedenti, il professore
si decide a concludere
la lezione e a rivolgersi con parole comprensibili agli interessati:
l’arcata è stretta, la
parte superiore sporge rispetto a quella inferiore, ci vuole l’apparecchio
per tre anni.
A casa si discute, è meglio l’apparecchio, a costo di creare dei
complessi, o lasciamo
(riga 20) perdere? Nessuno di noi è diventato un mostro anche
se abbiamo qualche capsula.
Ma è chiaro che si decide per l’apparecchio, se ci dicessero che
nostro figlio ha il
mignolo leggermente curvo lo ingesseremmo subito fino all’omero.
Così la nostra vita comincia ad essere condizionata dall’apparecchio
che ci segue
ovunque, d’estate al mare, d’inverno in montagna: si torna indietro,
dopo cento chilometri
(riga 25) d’autostrada, perché la madre s’è accorta con un urlo
di avere dimenticato
l’apparecchio: bisogna litigare con le nonne che insorgono, povero
cocco è una
tortura; bisogna arrabbiarsi col bambino che, dopo un trimestre,
pretende di aver
già sistemato l’arcata superiore: i denti sono tuoi, non sono
miei, mettiti subito l’apparecchio.
(riga 30) Il ragazzino tenta di eccepire. «Cosa dice?», chiede
il marito alla moglie che, miracolo
della maternità, riesce anche a decifrare il gorgoglio emesso
dal figlio con lo strumento
in bocca.
Questi apparecchi sono più o meno allucinanti, vanno dal più semplice
– cioè il calco
di plastica rosa che il bambino ha imparato ad applicarsi sotto
il palato e a toglierselo
(riga 35) per immergerlo nel bicchiere sul comodino – all’archetto
d’acciaio da applicare
con gancetti ed elastici, e qui ci vuole l’intervento della madre,
polso fermo come
quando s’infila l’ago. Ogni due o tre giorni bisogna cambiare
gli elastici, il padre ha
scoperto una cartoleria dove vendono quelli della misura giusta,
soltanto uno sprovveduto
può illudersi che gli elastici raccolti via via in casa vadano
bene per le arcate.
(riga 40) Il bambino va a letto con tutti i suoi tiranti, qualche
volta di notte ci sveglia, grida che
è partito un elastico: accorriamo e, a vederlo con quel morso
in bocca, gli mancano
soltanto le briglie, ci assale un’ondata di tenerezza. Mi vien
da sorridere alla tesi che
le nuove generazioni siano ribelli e birboni: abbiamo delle generazioni
di martiri.
Talvolta l’apparecchio si perde, la vita familiare si paralizza,
tutti cominciano a cercarlo
(riga 45) incolpandosi reciprocamente di negligenza: un giorno
lo strumento salta fuori,
incastrato nel cassettone del letto e resta (insolubile) il dubbio
se c’è finito per caso
o se ce l’ha sistemato il bambino con l’arcata superiore eccetera.
Passano gli anni, ogni tanto viene lanciato un nuovo apparecchio
e le madri si telefonano
subito, lo consigliano, se lo spiegano, basta avvitare un piccolo
bullone.
(riga 50) Al "complesso" ormai non ci pensa più nessuno. Se mai
il complesso viene a quei
poveri bambini che hanno le arcate banalmente regolari e non hanno
bisogno di
nessun apparecchio e non sanno cos’è l’ortognatodonzia. |
.L.
Goldoni, Uno sguardo dal banco, Garzanti |
Che cosa
intende dimostrare l’autore di questo testo?
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