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Avevo lanciato
l’idea perché dovevo dare a Semba una notizia che di certo non
gli
avrebbe fatto piacere, e avevo bisogno di un luogo particolare,
di un paesaggio che
mi facilitasse in qualche modo le cose.
Era maggio e, dal momento che ero in pratica disoccupato, avevo
proposto a mio
(riga 5) fratello di lanciarci in una di quelle che chiamavano
“le nostre esplorazioni”, come ai
bei tempi, approfittando di un giorno in cui nemmeno al porto
c’era lavoro. Di buon
mattino eravamo partiti da Avenue Malick-Sy a bordo di una vecchia
corriera diretta
alla Petite Côte, una regione a sud di Dakar dove non eravamo
mai stati. Dicevano
che fosse molto bella.
(riga 10) Scendemmo a Joal e cominciammo a camminare fra le sue
vecchie case e le palme
di cocco, poi per un terreno inaridito su cui crescevano imponenti
baobab.
Lungo la riva del mare si elevavano strani cumuli bianchi, grandi
come palazzi.
«È sabbia?» chiese Semba.
«Andiamo a vedere.»
(riga 15) Non era sabbia, erano montagne di conchiglie ammassate,
secolo dopo secolo, dal-
la gente che era vissuta là. Sembrava che recassero ancora le
impronte degli uomini
delle età passate, come se su quelle superfici levigate, fra quelle
scaglie dure e lisce
fosse scivolata tutta la storia del nostro popolo. Provai malinconia
a quel pensiero e
all’idea del motivo per cui mi trovato lì, ma mi sforzai di vincerla.
(riga 20) «Non staremo qui tutto il giorno a contare conchiglie,
no?» dissi. «Forza, noleggiamo
una piroga e raggiungiamo l’isola di Fadiouth, qui davanti.»
Attraversammo il breve tratto di mare e raggiungemmo Fadiouth,
un’isoletta che
poggiava su cumuli sommersi di conchiglie. Facemmo una lunga nuotata,
pregammo
rivolti verso est, poi rimanemmo sdraiati in cima a una duna sabbiosa
a mangiare
(riga 25) le patate dolci che avevamo portato da casa e a guardare
i pescatori sulla riva, che
sistemavano le reti nelle piroghe.
A un tratto Semba vide qualcosa che brillava a poca distanza sulla
sabbia e corse
a raccoglierla. Era una grossa conchiglia rosa pallido dalla forma
tormentata, che si
accostò all’orecchio. Poi me la tese.
(riga 30) «Prendila, è tua. Portala con te dove andrai, ne avrai
bisogno. E se ti senti solo ascoltala.
Fa’ conto di sentirci dentro tutte le voci dell’Africa.»
Rimasi immobile, colpito da quelle parole, e non ebbi neanche
la forza di prendere
la conchiglia che lui mi porgeva.
«Ma come fai a sapere.»
(riga 35) «L’ho sognato. Non era questo che volevi dirmi oggi?»
Di colpo mi passò tutto l’imbarazzo e gli parlai liberamente,
come sempre. «Cerca
di capirmi, Semba. A Dakar siamo in troppi, non c’è lavoro per
tutti. Non si trovano
nemmeno più occupazioni saltuarie. Non ho niente da perdere, così
voglio provare
anch’io ad andare in Europa. Guarda in quanti l’hanno fatto: Albouri,
Yaro, Abdou…
(riga 40) Ogni tanto alle loro famiglie arrivano delle belle somme
e…»
«Lamine non è più tornato.»
«Lascia stare Lamine. Gli altri se la cavano. In Europa c’è lavoro,
c’è ricchezza, la gente
vive bene. E poi non rimarrò via a lungo. Se riesco ad arrivare
in Francia, tanto meglio.
Non ci sarebbero problemi con la lingua. Però è difficile, non
lasciano entrare quasi più
(riga 45) nessuno. Altrimenti in Italia, come hanno fatto Yaro
e Ousmane. Chiederò a Coumba
da dove le spedisce i soldi Yaro e cercherò di raggiungerlo. Lui
o qualcun altro.»
Semba rimase qualche minuto in silenzio, poi disse: «Quando ti
sei sposato, ho capito
subito che sarebbe finita così. È sempre la stessa storia che
si ripete, proprio come
è successo ad Albouri, a Yaro, ad Abdou…»
(riga 50) «Sei in collera con me?»
«No, a cosa servirebbe? Capisco che non si può fare in modo diverso.
Tutti quelli che
partono ci sono costretti: costretti dalla miseria oggi, come
erano costretti ieri dalle
armi dei bianchi. L’ho studiato a scuola, sai, come noi africani
venivamo caricati in
catene sulle navi dei francesi, dei portoghesi, degli inglesi,
e venduti come schiavi in
(riga 55) America. Il nostro destino è sempre di essere schiavi.»
Cercai di scherzare. «Adesso non esagerare. Nessuno mi obbliga
con la forza. Se ho
deciso di partire è anche per un’altra ragione. Sai, Maïrame…»
Semba si girò a guardarmi e sorrise, scoprendo i denti bianchissimi.
«Vuoi dire che…
aspetta un bambino?» Gli occhi gli brillavano sul volto nero.
(riga 60) Anche a me si accesero gli occhi, di felicità e di orgoglio.
«Pare proprio di sì.»
Semba mi buttò le braccia al collo con una esclamazione di gioia.
Cademmo all’indietro
e finimmo per rotolare giù per la duna, coprendoci di sabbia e
ridendo. Non
mi aspettavo una simile reazione ed ero contento che per il momento
l’ultima notizia
avesse messo in ombra l’annuncio della mia prossima partenza.
Quando ci passò
(riga 65) l’euforia, risalimmo la duna e tornammo a sederci, e
lui mi chiese:
«E come puoi partire, sapendo che fra qualche mese nascerà tuo
figlio?».
Per questa domanda avevo al risposta pronta. «È anche per lui
che parto» dissi.
«Quello che manca, qui, non è solo il lavoro. È la prospettiva
di un futuro.»
Semba annuì. «Parti pure, allora. Dio è grande, ti proteggerà.
Per me non ti preoccupare,
(riga 70) non sono più un bambino. Non ti angosciare neppure per
nostra madre, per
nostra sorella e per Maïrame. Penserò io a loro. Solo, ti prego…
cerca di tornare per
quando nascerà il bambino. Almeno qualche giorno.»
«Te lo prometto.»
Il sole stava scendendo verso l’oceano in una foschia dorata e
rimanemmo in silenzio
(riga 75) ad ammirare quel tramonto, che aveva qualcosa di magico,
di solenne.
Era ora di rimettere in acqua la piroga, tornare a Joal e saltare
sulla corriera per Dakar.
Ci alzammo, raccogliemmo le nostre poche cose, e quando infine
presi la conchi-
glia che lui mi offriva, lo abbracciai e lo ringraziai, assicurandogli
che l’avrei portata
sempre con me.
(riga 80) Ma due settimane più tardi, al momento della partenza,
mi mancò il coraggio di
metterla nel sacco da viaggio. Era troppo preziosa e volevo che
rimanesse lì, sulla
sedia vicino al letto, ad aspettarmi. |
..rid.
da P.A. Micheletti - S. Moussa Ba, La promessa di Hamadi, De
Agostini |
Le prime
righe del brano :
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