A1
Nel corso
dell'adolescenza maschi e femmine costruiscono idoli musicali.
Ne hanno
bisogno e si dedicano al loro culto con devozione. Gli idoli musicali
costano agli
adolescenti fatica, denaro e conflitti con i genitori e la cultura
degli adulti.
Questi "idoli" non sono bravi ragazzi, non frequentano la scuola,
non lavorano in
(riga 5) azienda, non vestono decentemente. Spesso sono disobbedienti
e predicano con
entusiasmo di vivere pericolosamente, di sfidare le regole, di
non sottomettersi alle
bugie degli adulti. Sono avvolti da fumo sospetto, istoriati da
tatuaggi minacciosi,
provocano sessualmente, istigano alla disobbedienza. Fanno la
faccia cattiva, urlano,
danzano, suonano e cantano indiavolati. Predicano molto male e
danno sicuramente
(riga 10) pessimi esempi. Hanno vita breve: a volte muoiono giovani,
dimostrando di aver avuto
torto a trascurare la salute e la moderazione nell'uso delle droghe.
Più spesso
spariscono come stelle cadenti.
Agli adolescenti sono serviti qualche mese, poi finiscono nell'archivio
della loro
crescita. Non sono più la colonna sonora della loro giovinezza.
Alcuni degli idoli
(riga 15) musicali sopravvivono invece a lungo, a volte invecchiano
assieme ai ragazzi che li
hanno inventati. Si ritrovano ai concerti, ma fomentano soltanto
la nostalgia: è solo
durante l'adolescenza che si ha bisogno di idoli; da adulti si
lotta per abbattere gli idoli
ed essere e restare cinici. Sono i ragazzi a inventare gli idoli,
non gli idoli a inventare i
ragazzi. Ogni generazione inventa i propri e affida loro il compito
di cantare e suonare
(riga 20) l'inno.
Gli adolescenti sono convinti di aver eletto i propri idoli dopo
una gara planetaria
alla quale hanno partecipato tutti e ha vinto il migliore. Non
accettano la convinzione
degli adulti che siano i produttori a vendere gli idoli, che si
tratti di operazioni
commerciali, che gli idoli siano merce, il prodotto finale di
marketing miliardari. Sono
(riga 25) convinti che l'idolo sia un medium che hanno scoperto
loro e al quale hanno affidato il
compito di intonare il loro canto, di pronunciare le parole che
ripeteranno in coro, a
migliaia, durante il grande rito del concerto.
Per essere riconosciuti come veri e propri idoli da una delle
mille tribù di cui si
compone la generazione giovane non bisogna avere idee proprie;
se si è bravi si può
(riga 30) diventare famosi, ma non degli idoli. L'idolo ha la
funzione di usare le proprie corde
vocali per pronunciare la prima sillaba della canzone. Il resto
i ragazzi lo sanno già.
L’idolo imita, non crea; è a rimorchio delle fantasie collettive,
non può inventare nulla,
può solo indugiare col canto su un particolare importante che
tutti conoscono già.
L’idolo non può rendere i ragazzi più buoni o più cattivi: è il
loro giullare, li deve
(riga 35) compiacere, sono loro che comandano. Lo pagano per farli
divertire, piangere, urlare;
si mettono in coda per ore, fanno viaggi faticosi e memorabili,
ma l’idolo non deve
tradirli mettendosi a parlare di sé, deve parlare di loro. Devono
riconoscersi in ciò che
canta e suona, in tutti i luoghi del mondo in cui si ha la stessa
età.
Se uno suona e canta la propria canzone, possono essere in pochi
o in molti ad
(riga 40) ascoltarlo, ma non si diventa idoli se si è troppo egoisti:
gli idoli sanno sacrificare
tutto, anche il pudore e la decenza, pur di mandare a casa contenti
i ragazzi. Gli idoli
debbono esagerare, è questo il loro mestiere. Debbono rendere
inverosimile ciò che
potrebbe essere vero, debbono trasformarlo in spettacolo. Accettano
di essere la
caricatura dell’incubo, la maschera dell’indefinibile, la monumentale
incertezza fra il
(riga 45) maschio e la femmina, il prodigio di essere il bambino
e il vecchio nello stesso tempo.
Gli adolescenti si divertono dinanzi al contorsionista dell’identità,
si divertono
davanti alla rivendicazione dell’incertezza, alla grottesca rinuncia
a ogni definizione.
Sanno di cosa sta blaterando l’idolo trasgressivo e travestito,
ma non è lui che li istiga,
sono loro che lo costringono ad assumersi la responsabilità di
tutto. È lui che deve dire
(riga 50) la parola, quella parola; loro ridono e applaudono,
come in classe quando il giullare
attacca le regole e mette alla gogna il docente; ridono, ma è
il giullare che finisce male,
loro studiano e saranno promossi.
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G.
P. Charmet, I Cantanti maledetti, in «Corriere Salute», suppl.
del «Corriere della Sera», 22 giugno 2003 |
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