A1
Oggi i bambini,
con la TV, conoscono tante storie vere degli uomini e degli animali
e
conoscono anche la storia più bella, la prima: come si nasce e
si diventa cittadini del
mondo.
Ma quando ero bambino io, le mamme non se la sentivano di dire
ai loro figli come
(riga 5) erano venuti al mondo, come se quella storia fosse una
cosa brutta.
Quando i bambini, curiosi, volevano sapere come erano nati, le
mamme e i papà
raccontavano storie strane: che li avevano comperati al mercato,
o che li aveva portati
la cicogna, o che li avevano trovati sotto un cavolo.
A me la mamma aveva detto che mi aveva visto al mercato, che le
ero subito pia-
(riga 10) ciuto e mi aveva comperato, anche se aveva pochi soldi.
Ma le bugie, come si sa, hanno le gambe corte, e un giorno scoprii
la verità.
Era un pomeriggio di settembre. Mio padre torna dalla caccia con
la cagna festosa:
infatti ha nel carniere una grossa lepre. E subito, come di solito
faceva, si appresta
a sventrarla.
(riga 15) Io lo aiuto a portare la scala in fondo al cortile,
che lui appoggia al fico. Alla scala
lega le zampe posteriori della lepre, che penzola a testa in giù.
Mia madre è lì vicino e sta lavando i panni, curva sul mastello:
insapona, sbatte,
spazzola, risciacqua, strizza.
Io corro in casa a prendere la ciotola per raccogliere il fegato,
il cuore e la milza
(riga 20) quando il papà aprirà la pancia della lepre. Intanto
la cagna, che l’aveva scovata e ora
assiste all’operazione, freme impaziente di addentare le interiora,
che sono sempre
sue.
Mio padre, col suo coltellino affilato, comincia a tagliare il
pelo del ventre e a
incidere le carni. Il sangue comincia a colare e le sue mani buttano
nella ciotola le
(riga 25) frattaglie. Nello stesso tempo vedo che fruga nel corpo
della povera bestiola e afferra
qualcosa con delicatezza: sono quattro corpicini bianchi. Me li
mostra sul palmo e
dice: - Aveva i leprottini, guarda. Quattro.
All’improvviso una luce squarcia il buio del mistero. E penso:
«Allora non è vero
che mi hanno comperato al mercato, ma si nasce dal corpo della
mamma, dunque
(riga 30) anche io…»
Come se avesse letto i miei pensieri, mia madre, senza alzare
la testa dal mastello,
dice: – Li avrà trovati nell’erba e li avrà mangiati –. E tace.
Tace anche mio padre, forse per non contraddirla, e io ripiombo
nel buio. «Guarda
che cosa ho immaginato…» penso.
(riga 35) Mi distrae il tonfo delle interiora sul terreno, che
la cagna addenta per portarle in
disparte e mangiarsele.
Riporto in casa la ciotola e la mia testa è piena di pensieri
confusi. Il dubbio che
mia madre mi ha messo addosso non riesce a cancellare le parole
di mio padre: «Ha
i leprottini…»
(riga 40) Sì, deve essere proprio così, penso: si nasce dal corpo
della mamma… e mi pare
una cosa bellissima. La storia più bella. |
Nella mia
casa, d’estate, le formiche erano dappertutto. Io le osservavo
con curiosità,
così piccole e sempre in moto, e volevo capire cosa facevano e
com’era la loro vita,
ma mi sembrava tutto strano e difficile da capire.
In cucina, di fianco al focolare, c’era un buchino quasi invisibile:
da lì all’improv-
(riga 5) viso, vedevo sbucare formicoline nere così piccine che
parevano puntini: in fila, una
dietro l’altra come soldati in marcia, andavano. Io, per osservarle
bene, mi chinavo
fin quasi a terra e riuscivo a vedere le loro zampette agili,
le antenne con le quali
toccavano tutto, e intanto pensavo: «Dove vanno? A fare che cosa?
C’è qualcuno che
le guida?»
(riga 10) La mamma diceva quel che dicevano tutti: che andavano
in cerca di cibo (semi
e briciole) per l’inverno. Ma tranne qualcuna che faceva grandi
sforzi per trascinare
qualcosa di molto più grande di lei, le altre andavano e tornavano
dalle loro passeggiate
senza portare niente.
In giardino c’era un’altra tribù di formiche nere, più grosse.
L’ingresso della loro
(riga 15) tana era vicino al bordo dell’aiuola e, in certi giorni
di sole, davanti alla loro «casa» si
formava una folla di formiche: circondavano una zona e in quello
spazio altre formiche
uscivano dal buco tenendo fra le mandibole dei piccolissimi cappuccetti
bianchi e
li posavano allineati al sole. Quando il sole stava per tramontare
o il cielo si annuvolava,
la folla si agitava e in fretta i cappuccetti bianchi venivano
riportati dentro. Le
(riga 20) formiche scomparivano e il buco a poco a poco si chiudeva,
nascosto tra i fili d’erba.
Quando pioveva non si vedeva più niente e io mi chiedevo come
faceva a non entrare
l’acqua nella tana. In qualche modo ci riuscivano perché, appena
tornava il sole,
eccole rispuntare dal buco che si apriva di nuovo, con i loro
cappucci bianchi tra le
mandibole. La stessa cosa facevano per molti giorni, e anche più
volte in un giorno.
(riga 25) In cortile, vicino alla pompa dell’acqua, sotto una
lastra di cemento, scoprii un
giorno una tribù di formiche rosse, piuttosto grosse, che uscivano
da una fessura
sotto il cemento. Queste formiche non si mescolavano con le altre,
vivevano isolate
nel loro territorio. Un pomeriggio, a qualche metro di distanza
dalla loro tana, vidi
due «macchie» di formiche vicine: una era la tribù delle rosse,
l’altra una tribù di formiche
(riga 30) nere. I due gruppi erano compatti e vicinissimi. A un
tratto, dove le rosse e le
nere quasi si toccavano, cominciò una agitazione e i due gruppi
si mescolarono. Sembrava
una festa di formiche che si abbracciavano, ma era invece una
guerra, che durò
a lungo. Quando finì, le due tribù si ritirarono ognuna nella
sua tana ma sul campo di
battaglia restarono numerosi corpi morti. Alcune formiche rosse
e altre nere esploravano,
(riga 35) annusavano, come se cercassero di contare i loro morti,
proprio come fanno gli
uomini dopo una battaglia. «Ma perché avevano fatto quella lotta?
Anche le formiche
fanno la guerra?» mi chiedevo. |
Quando l'autore di entrambi i brani era un bambino
|